giovedì 29 novembre 2012

ASANTE SANA


(2 maggio 2012)

- Pumua mama, pumua…pole pole…pole pole…endelea…pumua…
La invitai a respirare piano, per aiutarla a rilassarsi. Joyce era rigida e spaventata, un fascio di nervi tesi come le corde di un violino. Sudava molto, ma non era l’irrespirabile arsura della savana ad accaldarla. Le contrazioni erano iniziate diversi giorni prima, né lei né le donne del villaggio riuscivano a ricordare con esattezza quando. Le infermiere del dispensario mi raccontarono che era stata portata con le prime luci del mattino, e che per tutta la giornata le contrazioni si erano sempre mantnute intense e regolari, ma con una dilatazione che procedeva lentamente, molto lentamente. Chiesi di poter visionare il libretto della gravidanza. Aveva eseguito una sola visita, nessuna ecografia. Non ricordava con precisione la data dell’ultima mestruazione, ma mentre le toccavo la pancia sentivo che quel bambino doveva essere piccolo. Pregai che non fosse prematuro.
- Pumua mama…asante. Iko uchungu sasa? Uapi?
Finalmente riuscì a calmarsi. Mi disse di avere molto dolore alla schiena, in basso. Ascoltai il battito del bambino con il mio piccolo stetoscopio di legno. Era buono, ma non potevo sapere per quanto ancora si sarebbe mantenuto tale. Le dissi che era necessario visitarla, che ci avrei messo poco, ma che avevo bisogno di capire com’era messo il suo bambino.
In quei mesi di esperienza africana, la mia fiducia nei confronti delle colleghe autoctone sull’esecuzione di una visita andava sempre più affievolendosi. Ero indecisa. Avrei preferito risparmiare a Joyce il fastidio dell’ennesimo controllo, ma ne avevo bisogno per decidere il da farsi. E il tempo a nostra disposizione poteva non essere molto.

Qualche ora prima, mi trovavo nel reparto di pediatria dell’ospedale missionario presso cui prestavo servizio. Ero intenta a seguire i primi tentativi di allattamento delle mamme dei bambini nati prematuri, quando ricevemmo la chiamata delle infermiere del vicino dispensario per un problema con una donna in travaglio. Avevano bisogno del consulto di un’esperta per un eventuale trasferimento in una struttura provvista di sala operatoria. Ipotizzavano un arresto della dilatazione, con conseguente necessità di taglio cesareo. Conoscendo i tempi di reazione africani sulle urgenze, mi allarmai. Mi dissero di salire sull’ambulanza per essere trasportata fino al dispensario.
- Quanto tempo ci metteremo?
- E’ qui vicino, dopo il fiume.
L’orologio nella mia testa iniziò a girare, tic tac tic tac tic tac… Salutai le mamme dei piccoli e raccomandai loro di provare ad allattarli ancora, anche in mia assenza. Promisi che sarei tornata per la poppata successiva. In fretta e furia preparai gli strumenti necessari. Sbraitai per avere in prestito un piccolo ambu per la rianimazione. Lo ottenni. Sapevo che potevamo non avere molto tempo. Agivo veloce e svelta, ma la sensazione era quella di muovermi al rallentatore. Attesi almeno mezz’ora, l’autista non si trovava. Poi, finalmente, partimmo.


Non ho mai imparato ad abituarmi ai ritmi africani. Il loro concetto del tempo e delle distanze è a dir poco imparagonabile al nostro. E’ una cultura radicata alla Madre Terra, in contatto con la natura ed il cammino del sole nel cielo. Noi “occidentali” abbiamo perso tutto questo, immersi nella frenesia quotidiana, ritmata dal passaggio delle auto e dai programmi televisivi trasmessi 24 ore su 24.
Pregai l’autista di non perdere tempo. Percorsa un’infinità di chilometri di polvere, strada dissestata, con carico e scarico di persone che chiedevano un passaggio, finalmente ero arrivata al dispensario. Dopo due ore di viaggio.

Joyce era distesa sul letto, accanto a me. Infilai il guanto, le chiesi il permesso, e la visitai. La situazione era in stallo. La posizione della testa del piccolo non permetteva alla dilatazione di proseguire. L’orologio nella mia testa riprese a girare… Tic tac tic tac tic tac… Che fare? Sapevo che c’erano delle possibilità che quel bambino potesse nascere lì, al dispensario. Avrei dovuto chiedere alla donna di adottare una determinata posizione, attendere la rotazione del bambino, provare a rompere le membrare, sperare che il liquido fosse limpido. Sperare che la dilatazione continuasse. Sperare che il battito reggesse. Sperare che l’ossigeno non fosse necessario. Sperare che mamma e bambino avessero ancora molte risorse ed energie da bruciare… Ma lo stato di carenza fisica e certamente alimentare in cui si trovava Joyce, unita alla stanchezza e allo sfinimento che le sfiguravano il volto, il protrarsi del travaglio per chissà quanto tempo, la mancanza di farmaci e attrezzature adatte del dispensario, mi fecero scegliere l’altra alternativa: quel bambino sarebbe nato in ospedale. Sapevo che la notizia non sarebbe stata accolta con felicità soprattutto dalla famiglia della donna. Trasferirsi in una struttura con migliori possibilità di assistenza ha un solo e preciso significato: un aumento del conto per la dimissione.
In Kenya, la sanità è a pagamento. Ogni minuscolo strumento, dal singolo guanto alla compressa, dall’ago al set di ferri chirurgici, viene pagato da chi riceve assistenza. Chi non è in grado di pagare, non viene dimesso finché il conto non viene saldato. Chiaro e semplice come il sorgere e il tramontare del sole.

Nonostante la resistenza di alcuni parenti, Joyce salì sull’ambulanza, e ripartimmo. Le contrazioni non le davano tregua. Stava male, e il viaggio era per lei difficile da sopportare. Viaggiare in quelle zone aride del Kenya, con poche strade asfaltate, significa sobbalzare violentemente per le innumerevoli buche disseminate lungo il tragitto, respirando e mangiando polvere rossa. Nonostante le difficoltà, Joyce mi guardava con occhi carichi di speranza. Sapeva che ero lì per aiutarla.

Giunti a destinazione, andammo in sala parto. Joyce era più che mai stremata. Le proposi di stendersi su un letto, su di un fianco, per riposarsi e aiutare il piccolo a girarsi nella giusta posizione. Le rinfrescai il viso con un po’ di acqua fresca e le diedi da bere un po’ di tè zuccherato. Iniziai a massaggiarle la schiena senza che me lo chiedesse. Mi disse che andava bene, che potevo continuare. Quando ebbe ripreso un po’ le forze, le chiesi di mettersi a carponi, come i gatti. Le infermiere locali, passando, guardavano la scena con curiosità, ridendo. Solo Betty, la più anziana di loro, comprendeva i miei gesti. Riprese le colleghe suggerendo loro di andare a ridere altrove, lasciandoci aiutare quella mamma, e si affiancò a me.

Passammo così un’indefinita quantità di tempo, ma ricordo che non dovetti aspettare molto prima di sentire l’istinto di Joyce prendere il sopravvento, e iniziare ad accompagnare la nascita del suo bambino, spingendo con tutte le sue forze, con una naturalità che lascia senza parole chiunque non abbia mai partorito.

Il piccolo Moses nacque senza bisogno di ossigeno. Era piccolo, ma stava bene. Aprì subito i suoi occhietti vispi e guardò la sua mamma che, tenendolo tra le braccia, ringraziava Dio per averli aiutati.

Stavano bene, ed erano bellissimi insieme. Joyce lo attaccò subito al seno. Avrei voluto stare con loro ancora un po’ prima di tornare a casa, ma la mia giornata non era ancora finita. Dovevo tornare in pediatria per seguire gli allattamenti dei prematuri. Così, stanca ed accaldata, salutai Joyce e il suo bambino, dicendo che ci saremmo rivisti il giorno successivo. Era sulla porta quando le sue parole mi giunsero come una carezza calda in pieno inverno, quando fuori nevica e anche in casa, a volte, fa freddo.
- Mungu akubariki, mkunga. Asante sana.
(Che Dio ti benedica, ostetrica. Grazie mille.)

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